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Un medioevo visionario, un
bestiario colorato e contemporaneo, un continuo susseguirsi di
immagini visive e uditive sorprendenti, una abbazia ottagonale
di organza e luce che svetta sulla scena, un portale romanico
che prende vita fino a sgretolarsi sono l'ambiente in cui si
muovono i 21 personaggi principali de Il nome della rosa, opera
di Francesco Filidei, che ieri, 27 aprile, ha debuttato in prima
assoluta alla Scala di Milano in una gigantesca coproduzione con
l'Opéra di Parigi, dove andrà in scena nella versione francese
fra tre anni, e il Carlo Felice di Genova.
Un avvenimento che ha attirato in teatro al debutto non
politici e personaggi dello spettacolo come spesso avviene per
l'inaugurazione della stagione il 7 dicembre ma uno stuolo di
compositori (da Fabio Vacchi a Salvatore Sciarrino, da Silvia
Colasanti a Luca Francesconi) e soprattutto rappresentanti di
teatri dall'Opéra de Lyon, alla Wiener Staatsoper, dall'Ensemble
Intercontemporain, all'Opera nazionale dei Paesi Bassi, al
festival di Aix-en-Provence a Fabrizio Zappi di RAI Cultura, che
trasmetterà lo spettacolo in autunno, a dimostrazione
dell'importanza di questo nuovo lavoro. Un po' come era successo
all'ultima prima dall'eco mondiale della Scala Fin de partie di
Gyorgy Kurtag del 15 novembre 2018, quando in teatro arrivò
anche Viktor Orban ad omaggiare il più grande compositore
ungherese vivente. Questa sera non poteva mancare l'ex
sovrintendente scaligero Dominique Meyer, che ha ideato il
progetto, oltre ovviamente al padrone di casa Fortunato
Ortombina.
Una cosa era certa fin dall'annuncio della nuova produzione:
che l'opera tratta dal più famoso romanzo di Umberto Eco
(presente oggi anche la famiglia con la vedova Renate e i due
figli Carlotta e Stefano) non sarebbe stata scontata, anche
grazie alla regia di Damiano Michieletto che aiutato dalle scene
di Paolo Fantin, dai costumi di Carla Teti e le luci di Fabio
Barettin, ha dato forma vivente e vivace, fin truculenta, al
racconto dei sette omicidi avvenuti in sette giorni, un mistero
risolto da Guglielmo da Baskerville (il baritono Lucas Meachem)
accompagnato dal giovane Adso da Melk (il mezzosoprano Kate
Lindsey). Come il romanzo di Eco ha molti livelli di lettura,
riferimenti alti e bassi (da libro giallo con echi della coppia
Sherlock Holmes/Watson alla teologia medievale) e linguaggi
diversi, così anche quest'opera presenta nella composizione
elementi diversi: arie in cui i protagonisti sono supportati
solo da un paio di strumenti a impegni massivi per l'orchestra
con echi da Messiaen, al canto gregoriano (coro e coro di voci
bianche hanno un impegno intenso, sul palco, fuori e anche su
una struttura rialzata, nel ruolo di Adso anziano che ricorda
gli avvenimenti) a conferma dell'impegno richiesto anche al
direttore Ingo Metzmacher. Non solo quella di Adso è una parte
'en travesti' ma pure quella dell'inquisitore Bernardo Gui
interpretato da Daniela Barcellona, mentre Gianluca Buratto (che
stasera canta nonostante qualche indisposizione annunciata prima
dello spettacolo) è Jorge De Burgos. Una cosa è certa. Si tratta
di uno spettacolo che non si dimentica come hanno dimostrato gli
oltre dieci minuti di applausi finali.
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