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Popolizio porta in scena a Roma un Pinter farsesco

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Popolizio porta in scena a Roma un Pinter farsesco

Un 'Ritorno a casa' dal bel ritmo e con effetti teatrali

ROMA, 08 maggio 2025, 14:02

Redazione ANSA

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(di Paolo Petroni) Lunghi appalusi per questo 'Ritorno a casa'' di Harold Pinter firmato da Massimo Popolizio al teatro Argentina (fino al 25 maggio) con la sua sensibilità per la teatralità, per i ritmi e gli effetti di una rappresentazione, la capacità di cogliere la nota comica anche nel drammatico e lavorare con gli attori. Ecco allora uno spettacolo forte che gioca sopra le righe, che punta al grottesco quasi farsescamente, senza tempi morti o lentezze, tenuto su di tono con la prevalenza del rabbioso, comunque con un fondo di rancoroso qualsiasi sia il momento, e con una recitazione spesso icastica e un po' perentoria, tranne nel finale a sorpresa col suo arreso invertirsi dei ruoli tra maschi e donna, una sola tra cinque uomini.
    Il fatto è che mettere in scena Pinter è un gioco di equilibrismo, di lavorare più sul non detto che su quel che appare esplicito, sul sottintendere e andar oltre la superficie realistica, recitare il vero ma facendolo apparire astratto, altro. Ricordiamo un 'Ritorno a casa' con regia di Peter Stein con quei personaggi molto caratterizzati e un po' estremi resi in modo caloroso ma davvero asciutto, senza mai cedere, nemmeno un momento, al facile rischio di scivolare nella coloritura.
    Ecco allora che prende peso una certo disagio esistenziale, un'ambiguità dell'essere e dei rapporti, un qualcosa di indefinito che crea supense, attesa più o meno minacciosa, che è appunto nella conclusione, con la donna affrontata come oggetto ma che, di quella condizione, fa un potere.
    Il gioco al contrario di Popolizio, puntando, con una recitazione icastica e speso perentoria, più sull'estremo che su un aspro quotidiano, crudele ma non arbitrario, con sue ragioni, magari dal sottile sapore inglese più che mediterraneo, rischia che l'andare sopra le righe annulli il resto, facendolo finire solo in se stesso, inventandosi anche nel delicato e forte, ambiguo finale una sorta di visione spettacolare e provocatoria.
    Al centro della vicenda c'è Max, un anziano padre, ex macellaio invecchiato male, tra casalingo Andy Capp col cappellino e il padre-padrone che difende il proprio ruolo brandendo il proprio bastone, cui lo stesso Popolizio dà vitalità, con la sua abilità nel saper usare i toni, rabbioso ma con note ora ironiche ora perfino di tenerezza. Con lui, in questa vecchia casa vittoriana decaduta e solo resti sparsi del passato, ideata da Maurizio Balò con un ritratto di Elisabetta da una parte e una testa di mucca dall'altra, a ricordare il lavoro di famiglia, sono due figli sempre molto esagitati e permalosi, l'ambiguo gigolò Lenny di Christian La Rosa e il Joey di Alberto Onofrietti che sogna un'impossibile carriera di pugile, oltre al mal tollerato Sam di Paolo Musio, autista e fratello di Max.
    Il ritorno a casa è quello di un terzo figlio, Tedddy di Eros Pascale, professore di filosofia in America, ansioso e perdente sin dall'inizio, che arriva una notte con la moglie Ruth, con un vago passato di modella grazie al suo corpo, e che da madre di tre figli piccoli non ha perso il gioco di malizia e provocazione forte del suo potere femminile, che rende con più misura degli altri, anche se senza doppifondi, pur con un eccesso di esibizione e qualche inquietudine Gaja Masciale. Lei, in quel mondo di maschi dalla convivenza obbligata e difficile, presuntuosi e chiusi nei propri rapporti irrisolti, tra solidarietà di genere e odi subdoli e biechi, diventa una cartina di tornasole perturbante, che non sanno se vedere come madre o puttana e che comunque penseranno di usare e umiliare, quando accetta di restare con loro, mentre il marito torna a casa dai figli.
   

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