Casa Papanice come simbolo di un
necessario "manifesto" della conservazione delle opere
architettoniche contemporanee. Ci lavora, incalzato
dall'instancabile tenacia del nipote del costruttore
dell'iconico villino nel quartiere Nomentano di Roma,
l'archistar Paolo Portoghesi: non si rassegna all'immobilismo
della politica e della burocrazia che da anni, ma senza
risultati e con poca convinzione, sembra essersi arresa ad
assistere al lento degrado dell'edificio.
A nulla sono valsi, sino ad ora, i tentativi di sottoporre a
vincolo il villino capolavoro dell'architettura post-moderna,
realizzato sul finire degli anni '60 dall'architetto con
l'ingegnere Vittorio Gigliotti: un'opera unica "ispirata alla
natura" e alle innumerevoli morfologie di cui è ideatrice, con
la celebre facciata ornata di canne e rivestita di maiolica. "I
politici hanno una grande responsabilità" punta l'indice
l'architetto in occasione di un evento organizzato a Roma negli
spazi di Canova Gallery, studio di architettura e luogo di
incontri. Si discute di conservazione del moderno e del progetto
contemporaneo, a partire proprio dai contenuti del "Manifesto di
Casa Papanice". "Si è parlato tanto di come reagire allo scempio
e alla distruzione dell'architettura moderna" premette
Portoghesi che tuttavia non sembra individuare solo nella
burocrazia amministrativa il colpevole. "Gli architetti stessi
non sembrano essere molto sensibili al tema della difesa
dell'architettura: lo stesso Ordine non ha mai mosso un dito per
questa battaglia". E poi, aggiunge, c'è "una cattiva abitudine
italiana di combattere ciò che è diverso e, tra gli architetti,
di combattersi tra loro". E' un antico vizio. "In Italia le
correnti dominanti cercano sempre di schiacciarti: io stesso ne
sono stato vittima. Teorie e soluzioni che ho proposto sono
state combattute e fatte oggetto di ironie. Lo stesso post
moderno è stato un movimento combattuto, rifiutato in blocco
dal razionalismo imperante".
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