Nonostante sia un documentario scientifico e non abbia l'appetibilità di un film Marvel, Disney o di una commedia di Woody Allen, non perdete 'Gen' di Gianluca Matarrese perché parla dell'infinita complessità del genere umano e soprattutto di vite che nascono o sono in transito. Presentato al Sundance Film Festival, unico italiano in concorso, e ora in sala dal 27 marzo con Barz and Hippo, il docu ha come protagonista assoluto il dottor Maurizio Bini che al Niguarda di Milano è il responsabile della struttura Diagnosi e Terapia della Sterilità e Crioconservazione dal 1995.
La sua è una missione non facile né affatto convenzionale: trasformare vite attraverso la fertilità o l'affermazione di genere. Supervisiona così i sogni e le lotte di aspiranti genitori che si sottopongono alla fecondazione assistita, oltre che i viaggi di persone che vogliono riconciliare il proprio corpo con la propria identità di genere: coppie infertili e pazienti trans. Al centro del film gli scambi intimi e molto empatici tra il medico, laureato anche in filosofia, e i suoi pazienti sullo sfondo di luci e ombre dell'assistenza sanitaria pubblica e delle sue leggi.
"Il vero scopo del documentario - dice all'ANSA Bini - è resistere alla semplificazione, mostrando quanto sia complessa l'umanità e come stia stretta in regole rigide. Ogni governo prende posizioni assolutistiche senza tener conto di quello che fanno gli altri, mentre i vari Paesi dovrebbero utilizzare lo stesso criterio che, ad esempio, si usa per l'immigrazione. Questa è in fondo una medicina di confine e i confini vanno presidiati. Tutti hanno diritto di realizzare i propri desideri, ma essere aiutati poi resta un diritto debole. 'In medio stat virtus', sarebbe questa la prospettiva da adottare, ma purtroppo questo tipo di medicina è vittima collaterale di due estremi in un periodo in cui gli estremismi vanno forte". Ha trovato caratteristiche comuni tra le persone che vogliono cambiare sesso? "Sono persone molto a disagio che non sanno sempre qual è la cosa giusta da fare, perché sono talmente piene di emozioni, spinte sociali, blocchi familiari e così via. Non è sempre facile trovarsi a dire: tu sì e tu no! Preferisco cercare di capire insieme al paziente cosa va fatto. Emotivamente poi sono persone instabili, molte fanno abuso di antidepressivi. Non a caso la causa di morte più comune del transessualismo non aiutato è il suicidio".
E ancora Bini: "I media, la televisione fanno vedere del transessualismo solo gli aspetti spettacolari, le persone più istrioniche, quelle che vogliono fare spettacolo, non quelle sofferenti. Questo è invece un documentario sulle debolezze, sulla gente che soffre, non è certo un film su: 'io voglio mettere le tette'". Quanto pesano le posizioni del Vaticano sulle questioni di genere? "Devo essere sincero, il film è stato fatto vedere anche alle associazioni cattoliche e hanno risposto: è molto bello, ma non possiamo permettercelo. Da me è venuto un giornalista dell'Avvenire (Luciano Moia, ndr.) e ha scritto uno dei più begli articoli che abbia mai letto sul transessualismo perché, tra l'altro, ha citato San Paolo il quale dice che dovendo proprio scegliere fra fede, speranza e carità, alla fine va scelta la carità. Certo non sempre una persona creata da Dio si può permettere di seguire il suo desiderio perché questo comporta un disordine nell'ordine divino, ma diciamo che la sofferenza di queste persone viene colta dal Vaticano". Tutte le persone di cui si parla nel film hanno concesso la liberatoria perché si mostrassero i colloqui delicati e intimi con Bini: "Il fatto è che capiscono quanto sia difficile il loro percorso, quindi se mostrare la loro sofferenza può rendere più semplice le cose per gli altri lo fanno volentieri. Sono ancora ai piedi della montagna - conclude - ma vogliono indicare la strada da prendere".
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