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Carsen e l'elaborazione del passato di Edipo a Colono

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Carsen e l'elaborazione del passato di Edipo a Colono

Un percorso cui a Siracusa dà vita e verità Giuseppe Sartori

ROMA, 11 maggio 2025, 19:49

di Paolo Petroni

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- RIPRODUZIONE RISERVATA

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Nel Teatro Greco di Siracusa giganteggia questo Edipo a Colono, trasformato dal dolore, oramai cieco, mendico vestito di stracci, che la regia di Robert Carsen in alcuni momenti lascia completamente solo in scena, ai piedi della scalinata su cui è quel verde bosco di allusivi cipressi, luogo sacro che sente come la sua meta ultima e dove si ferma aspettando di attraversarlo per andare a morire.

Giuseppe Sartori, appoggiandosi a un bastone, gli dà vita e una verità che esprime la sofferenza interiore attraverso il corpo, tutto coinvolto dai piegamenti della testa alle contrazioni delle dita dei piedi, e modulazioni della voce con echi di una certa altisonante alterità e assieme di sentita, poetica umanità: "Quando non sono più nulla, proprio allora sono un uomo?".

La scena è ancora una scalinata, firmata da Radu Boruzescu, che rimanda a quella che portava alla reggia di Tebe e sempre Carsen nel 2022 aveva fatto scendere a un Edipo Re ormai vinto, maledetto, disfatto. Una scalinata che è di faccia e conclude il cerchio di quella della cavea del teatro, con Edipo che entra in scena passando tra gli spettatori, come ad alludere e dare un senso di teatralità alla sua vita e insieme far apparire che solo dopo averla messa in scena tutta può morire sereno, avendola elaborata e interiorizzata con la coscienza di non poter essere detto colpevole perché del tutto ignaro di quel che stava facendo (aver ucciso suo padre e poi sposato la madre).

Una fine non più per una violenza o soffrendo, ma in una dimensione di sacralità, di sublimazione del proprio essere interiore, che si libera delle spoglie mortali sparendo tra gli alberi. È dove dimorano le Eumenidi portatrici di pace, che Carsen fa apparire tra i cipressi vestite di verde tra sinuosità femminili o incisiva mimica gestualità, dividendo con loro la parte del coro che Sofocle aveva riservato solo ai cittadini di Atene. Una spettacolarizzazione senza eccessi, come anche l'uso scenografico di crateri di coccio e che versano simbolica acqua, per un testo che non ne offre quasi possibilità. 'Edipo a Colono' Sofocle lo ha scritto a novant'anni e mette un'intensità e delicatezza nella sua scoperta di fragilità, nel suo umano disfarsi, in cui probabilmente riflette la propria e indaga il mistero, l'inconcepibilità della morte. Accanto a questa dimensione umana comunque evidenzia anche un discorso politico. La tragedia andò in scena nel 401 a.C. quando la polis greca, la grandezza di Atene, con Sparta vincitrice, è vittima della sua stessa mania e forza del potere, qui rappresentata da Creonte (Paolo Mazzarelli), vestito di nero come Edipo e come tutti coloro che arrivano dal suo passato, compreso poi il figlio Polinice (Simone Severini), che lo rivorrebbe a Tebe solo perché un oracolo predice che il luogo dove Edipo sarà sepolto sarà per sempre protetto e invincibile. Al contrario indica l'alternativa il Re Teseo (Masssimo Nicolini), vestito di bianco come il coro di tutti gli altri abitanti di Atene, che accoglie e protegge Edipo in nome della compassione, della giustizia, dell'ospitalità dello straniero nonostante la fama che si porta appresso. Edipo, quasi antesignano del re Lear, con i due figli che non perdona perché lottano tra loro per il potere, ha anche quasi sempre in scena con lui due figlie pietose che gli sono accanto nella miseria della peregrinazione e gli ultimi giorni, in partecipe dialogo, rese con evidente amorevolezza e inquietudine interrogativa Antigone da un'intensa, luminosa Fotinì Peluso e Ismene da una non meno apprensiva Clara Bortolotti.

Una tragedia di dolore e destino, che dall'estremo patire porta alla liberazione, che è, fatte le inevitabili differenze, lo stesso percorso di 'Elettra', l'altro testo di Sofocle che si alterna con 'Edipo a Colono' in questa sessantesima stagione del Dramma Antico. Una doppia scelta quindi che appare avere un senso in questo momento di giorni martoriati, di guerre e sofferenze, metafora di sofferenza e speranza per una presa di coscienza che il mondo dovrebbe elaborare. E la luna piena che risplendeva alta sulle pietre antiche del Teatro Greco si spera fosse di buon augurio nello spingere alla riflessione.

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