(di Paolo Petroni)
AURELIO PICCA, ''CONTRO PINOCCHIO''
(EINAUDI, pp. 144 - 15,00 euro). Ancor prima che uscisse,
partendo dal titolo, questo libro è stato preso a pretesto per
discutere contro Pinocchio, e qui Picca è quasi solo, o a
favore, e allora c'è una bibliografia sterminata, da Croce a
Manganelli, da teologi a psicanalisti, a dimostrare che
evidentemente il discorso è altro. Picca infatti parla di
Pinocchio per parlare di sé e della sua infanzia come la può
trasfigurare un vero scrittore, che si sente più vicino ai
''Ragazzi della Via Pal'' di Ferenc Molnar che al nostro
burattino. E chi conosca i suoi libri, ultimo e rivelatorio ''Il
più grande criminale di Roma è stato amico mio'', capisce e non
si stupisce.
Al di là del titolo a effetto, la sua non va presa come una
valutazione critica, ma come una sorta di corpo a corpo con un
corpo che risulta sostanzialmente estraneo a lui, cresciuto per
certi versi brado, giocando, lavorando, misurandosi con
l'aggressività degli altri, e oggi ripensandoci scrive: ''la mia
esistenza è stata solo interiore, anche se sono stato sbattuto
in mezzo a una strada, con un filo legato a un'innocente e
vitalissima infanzia''. E, punto sostanziale, all'Aurelietto di
allora, che ha visto i morti distesi sul letto, dal patrigno al
nonno, ''a lui non è stata sottratta la morte, come si usa fare
adesso''. E anzi, oggi più si cresce, più la si maschera e
nasconde. Cosa che qualsiasi lettore di Picca sa che non
appartiene allo scrittore (e all'uomo), alla sua fisicità, alla
sua scrittura più che corposa, capace di farsi corpo, di
costruire la fisicità del narrato per raccontare quel che ciò
implica e quanto di umano vi è insito.
Allora Ernesto Nemecsek coi ragazzi della sua banda in lotta
per i propri diritti per le strade di Budapest che finiranno
travolti con i loro puri ideali, appare più vicino e forte a
Picca, che quel libro lo lesse da ragazzo, mentre Pinocchio lo
ha affrontato per la prima volta solo oggi e con occhio
sospettoso. Altrimenti forse, quel dibattersi di Pinocchio che
ne passa di tutti i colori, difendendosi con le bugie prima di
essere costretto a crescere, come accade in tutti i racconti
iniziatici, forse lo avrebbe sentito in altro modo. Lo avrebbe
vissuto come Cramelo Bene, che del resto cita e che dal 1981 lo
portò in scena più volte, vedendolo come la resistenza a
crescere, quella di ogni vero artista, onnipotente nella sua
impossibilità a diventare adulto e ne parlava, pensando anche a
se stesso, come di una ''inumazione prematura di una salma
infantile che scalcia nella propria bara''. A lui e a Picca non
a caso piaceva più la prima stesura di Pinocchio, quella noir
che finisce con la sua morte impiccato, cui Collodi fu costretto
poi a dare un seguito per le proteste dei lettori.
Picca sostiene invece che il più gran dolore per un bambino
è il non essere grande. La sua infanzia è così una crescita
continua, una lotta della vita contro la coscienza della morte,
un combattere sempre, anche se qualche volta inutilmente, se si
vuole ''trovare la propria Patria'' come fanno i ragazzi di
Molnar.
Lo scrittore poi non perde mai l'occasione per dire cosa e
come dovrebbe funzionare l'educazione e la scuola in
particolare, tra teoria e molta pratica, molto lavoro e vita
vera. E sono in fondo anche queste le ragioni per cui ama il
libro ''Cuore'' con i suoi alti sentimenti all'interno di una
società dove la scuola e i maestri sono un valore, con poveri e
ricchi, con lavori reali e una famiglia. Ai personaggi e
racconti di De Amicis, sempre in relazione con l'esperienza di
Aureliuccio, dedica così la seconda parte del libro, intitolata
''La patria giovane''. Il libro gli fu regalato per la sua prima
comunione e lo sentì anche letto dalla sua maestra negli anni in
cui ''eravamo nell'Eden'', poi si cresce: ''crescere è un
perdersi nel mondo ... è bene ferirsi, farsi male'' ovvero
''molto meglio che rimanere un pezzo di legno precipitato dal
Paradiso terrestre assieme a Adamo e Eva, però finito
all'Inferno''. La terza parte, quella conclusiva intitolata
''La visione'', riguarda quindi i ''Ragazzi della Via Pal'', che
vivono per strada, liberi e soli, come non avessero padri e
madri, ''pronti a combattere per un sogno'' e che ancora oggi a
leggerlo dice che lo ha commosso.
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