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Non c'è più una sola droga, oggi domina il policonsumo

Non c'è più una sola droga, oggi domina il policonsumo

Molto spesso gli stupefacenti si associano all'alcol, a volte al gioco d'azzardo


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Negli anni ‘80 era l'eroina la droga che dominava il mercato, oggi parliamo di policonsumo: non si consuma più una sola sostanza. Ci sono giovani consumatori di pasticche, fumatori di crack, cocainomani e persone invecchiate che ancora consumano stupefacenti 

di Angela Gennaro e Carmela Giudice


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“Io la chiamavo la mì ragazza”. Quel nome non lo pronuncia mai, Mattia. Nemmeno Stefano lo fa. “Ho perso la famiglia, a causa dell’uso della sostanza. Era arrivato un momento che avevo pensato addirittura al suicidio”. Neppure Federico, Silvio, Giorgio, Francesca pronunciano mai la parola “cocaina”.

“Sarà che ci ha rovinato la vita”, spiega Stefano con un’alzata di spalle. Aveva 17 anni la prima volta. “Per gioco. Una volta alla settimana, poi sempre più spesso fino a che non è diventata una routine quotidiana”. Per 24 anni, fino all’agosto scorso. “Ma ora mi sono ripreso tutto, eh. I miei figli mi amano. E mi ama anche mia moglie”.

“All’inizio è difficile”

A Morlupo, vicino Roma, Francesca (i nomi sono tutti di fantasia) è in questo periodo l’unica donna paziente del Care, servizio specialistico residenziale per dipendenza da cocaina nato nel 2011. Ha poco più di 40 anni, gli ultimi 5 di consumo pesante. Ha cominciato per gioco, a Capodanno: la persona che frequentava le ha detto: "Prendila, la prendono tutti". E lei l'ha presa.

“Mi facevo solo il weekend. Poi il venerdì, sabato e domenica. Poi anche il giovedì. Poi pure il mercoledì. Poi tutta la settimana”. Dalla cocaina al crack, ovvero la cocaina fumata, cotta e bruciata. “Oggi è la principale dipendenza”, spiega all’ANSA Germana Cesarano, psicoterapeuta e responsabile della comunità diurna di Magliana 80. Si occupa di droga da più di 40 anni e questa “è la peggiore tossicodipendenza con cui abbia mai dovuto confrontarmi: ha effetti psicopatologici devastanti”. L'effetto “è più intenso e più veloce e la dipendenza anche più grave perché si crea più rapidamente un fenomeno di tolleranza”, conferma Lucia Santon, psicoterapeuta e responsabile del Care.

Anche Giorgio ha cominciato a Capodanno, quando aveva a 18 anni. “Per i primi due anni solo il primo dell’anno, poi regolarmente: Capodanno mi sembra proprio il simbolo della cocaina”, dice oggi, più di 20 anni dopo. Mattia ha cominciato ancora prima, a 14 anni. Per gioco, poi è diventata routine. Tutti i giorni. Se la saltavo, recuperavo”. Ha perso tutto e lo ha ritrovato. Anche i figli, che ormai sono grandi e sanno. “È pure grazie a loro che sono qui. Come gliel’ho spiegato? Sono loro che hanno capito. Stanno avanti rispetto a noi”. E per loro oggi ha paura. “Ci vuole più informazione. Noi siamo il risultato di due generazioni in cui all’epoca 'dare una botta' era normale”. 

 

Un posto per rispondere alla dipendenza da cocaina

Il Care, servizio specialistico residenziale per dipendenza da cocaina
Il Care, servizio specialistico residenziale per dipendenza da cocaina - RIPRODUZIONE RISERVATA

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Un esperimento unico

La sede dell'attività residenziale del Care è una villetta anonima immersa nel verde. “La nostra formula di residenzialità è al momento un’esperienza unica in Italia: molto breve e intensiva”, racconta Santon. I pazienti entrano il venerdì ed escono la domenica, oppure il martedì fino al giovedì. Solo 48 ore di “sospensione della vita quotidiana e dei consumi” per un paio di volte al mese.

“Durante questo tempo molto breve si fa un'attività terapeutica concentrata, alternata a momenti liberi di relax”, focalizzata sulla dipendenza da cocaina “che ha aspetti simili ad altre dipendenze ma anche sue peculiarità, specialmente nello stile di vita”, dice Santon. Quasi tutti assumono anche una terapia farmacologica che devono autogestire quando sono fuori da qui. “Per la dipendenza da cocaina non esistono farmaci agonisti o antagonisti, come per eroina o alcol. Quindi la terapia è un mix di farmaci che, caso per caso, viene valutata dal medico psichiatra sulla base dell’entità dei consumi e del profilo psichico e psicopatologico”, prosegue la responsabile.

L’età media di chi arriva qui è di 38 anni: “Per chi consuma cocaina ci vuole un tempo lungo per arrivare a questo punto”, spiega Santon. Magari grazie a elementi di realtà: i debiti che non si riescono più a nascondere ("e i nostri pazienti sono molto bravi a farlo"), la famiglia che non accetta più di tollerare. Si tratta principalmente di uomini, le donne raggiungono sì e no il 10% del totale. C’è chi è arrivato qui per la moglie, perché il fratello o il cognato l’ha "menato", perché i genitori hanno minacciato di tagliare i ponti, per problemi sul lavoro.

Sui soldi, persi, nessuno si azzarda a quantificare davvero. “Probabilmente un locale l’ho fatto andare a gambe all’aria a causa della sostanza”, dice Giorgio, che lavora nella ristorazione. “Non li conto sennò mi deprimo”, dice con voce spezzata Francesca, che sta combattendo anche con la dipendenza da alcol: i suoi figli, ancora piccoli, sanno che si sta curando per quella, anche se fanno domande pure sulle canne. 

È Federico a dare il via a quella che diventa una processione laica davanti alla telecamera, abbassata per tutelare la privacy.

“Ero diffidente, ma dopo un anno eccomi”, dice. Si è rivolto al Serd, i servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema sanitario nazionale, che poi lo hanno indirizzato qui, “per non perdere mia moglie. Se ancora ho una vita, una famiglia, una macchina, un conto in banca, i miei genitori, devo tutto a questi operatori. Spero che gli altri capiscano che la sostanza non la controlli, è lei che controlla te. Siamo malati, non tossicodipendenti, e la cura esiste. Me l’avessero detto a 20 anni avrei detto 'ma che scherzi, io smetto quando voglio', ma non è così'”. 

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Viaggio al Care

Viaggio al Care

I due identikit del paziente tipico

Federico, Mattia, Stefano, Giorgio, rispondono a uno dei due identikit del paziente tipico: hanno cominciato da giovanissimi. “Tra i 15 e i 20 anni”, spiega Santon. “Probabilmente perché si proviene da contesti ambientali dove c'è un facile e immediato accesso alle sostanze, a volte famiglie problematiche, fallimenti durante i compiti evolutivi adolescenziali, difficoltà scolastiche, magari non registrate”. Francesca e Silvio, invece, hanno cominciato dopo i 30 anni: è l’altro identikit. “Almeno un terzo dei nostri pazienti: a volte hanno avuto usi non problematici in adolescenza e poi a 35-40 anni, per un cambio di scenario di vita, magari improvviso e traumatico, si ritrovano ad avere accesso alla cocaina e a sviluppare anche rapidamente una dipendenza”. 

“Ce n’è tantissima di gente che consuma: almeno il 90% delle persone che conosco”, dice Federico. Dal 2011 a oggi circa 550 persone hanno intercettato il servizio Care. Nei primi anni “abbiamo avuto grande afflusso di persone per cui il nostro servizio non era del tutto appropriato, e almeno un terzo di queste cartelle cliniche non si sono poi trasformate in persone prese in carico”. Da 4 anni il servizio ha messo a punto un monitoraggio dei dati e delle 231 cartelle aperte da allora, circa 160 persone hanno avuto accesso al programma “che prevede una fase diagnostica valutativa e una di trattamento di 6-18 mesi”. Per loro la percentuale di successo tocca il 90%, dice Santon. “Il problema delle dipendenze richiede risposte specifiche che possono cambiare di persona in persona”. 

“Se vogliamo fare qualcosa di saggio per la montagna di persone che si avvicina ai consumi dobbiamo dare a ognuna una risposta adeguata”, conferma all’ANSA Stefano Regio, presidente del "Cammino Cooperativa Sociale onlus" e responsabile area consumi e dipendenze del Cnca Lazio, il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. “Qualcuno svilupperà dipendenza. Il 90% no”. L’esperienza di consumo, per Regio, non è riducibile a zero, con buona pace del proibizionismo. “Puoi inventarti quello che vuoi. Ce lo dice la storia: il consumo fa parte dell’essere umano. A volte è più acuto, a volte flette, in alcune culture è più tollerato, in altre meno. Ma non esiste un Paese, una tribù che non fa consumo di sostanze”. Ed è, assicura Regio, “molto presuntuoso pensare che alcuni fenomeni possano essere gestiti con l’obiettivo di ridurli a zero. Possiamo solo trovare modi per accompagnare le persone per uscirne senza danni gravi e senza che, nell’assumere certe condotte, si diffondano per esempio malattie infettive nella popolazione generale. Questo per noi è l’approccio più sano, laico, professionale, efficace e scientifico”. 

 

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Magliana 80

Magazine Dipendenze
Magazine Dipendenze - RIPRODUZIONE RISERVATA

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Droghe diverse, età diverse

C’è un orto, fuori da Magliana 80, comunità di recupero per tossicodipendenti nel quadrante sud di Roma. “Esiste, ma non su carta. Quando abbiamo provato ad adottare quest’area verde, il comune ci ha detto che non è censita. E quindi la gestiamo noi in autonomia”, racconta Germana Cesarano: è qui da sempre, ha fatto parte di quel gruppo di giovanissimi psicologi e psicologhe che “in maniera anche un po' arrogante, ha occupato un garage qui per farne un centro di recupero nel cuore dello spaccio”. Ora la memoria è affidata (anche) a piante e fiori. “Quell’albero ricorda una persona morta recentemente. Quel melograno un nostro operatore”. 

“Oggi abbiamo servizi di prossimità, di bassa soglia, unità di strada, un notturno che purtroppo è stato chiuso, e due comunità, entrambe alla Magliana”, racconta Cesarano. L’ultimo nato è un centro per il gioco d'azzardo, insieme a servizi su prostituzione e tratta. Magliana 80 è la più antica comunità diurna gestita dalla cooperativa che porta lo stesso nome. Arrivano persone da tutta la città, a volte da tutta la provincia. “Sono invecchiata con la tossicodipendenza, e i tossicodipendenti sono invecchiati con me”, ricorda Germana Cesarano seduta alla sua scrivania nella sede del centro. “Se negli anni ‘80 avevamo giovani eroinomani, e quindi c’era un modello educativo che funzionava, adesso abbiamo giovani consumatori di pasticche, giovani fumatori di crack, cocainomani, e persone invecchiate. Nel 1992, quando abbiamo aperto la comunità, l'età media era di 23 anni. Adesso è di 40”. All’epoca erano praticamente tutti eroinomani. Oggi, al 90%, sono cocainomani. 

L’eroina, comunque, non è sparita. “Più del 60% delle persone in carico ai servizi la consuma”, dice dalla Cnca Lazio Stefano Regio. Segue la cocaina. “E nei cocainomani c'è tipicamente un'associazione con l'alcol in forme più o meno problematiche”, aggiunge Lucia Santon dal Care. Frequente anche l'associazione con la cannabis, che magari deriva da consumi adolescenziali che si protraggono poi in età adulta con dipendenze vere e proprie. “E c'è poi un collegamento con una dipendenza comportamentale che è quella da gioco d'azzardo”. 

Mentre il crack “trova sempre più accoglienza nelle fasce giovanili ma non solo, oggi parliamo di policonsumo: non si consuma una sola sostanza”. Né le sostanze “sono tutte uguali”, dice Regio. “Hanno livelli di tossicità e pericolosità diversi. Non bisogna demonizzare la sostanza, ma sapere che tutti i consumi portano livelli di problematicità e rischio, anche perché le sostanze vengono reperite nell’illegalità e non si è mai sicuri di cosa si sta consumando”. Ma “ogni condotta umana comporta rischi. L’importante è cercare, per ogni fattore di rischio, un fattore di protezione. Nei consumi l’evidenza scientifica individua diversi fattori di protezione, che vanno però programmati e implementati riconoscendo il problema che abbiamo davanti”. 

L’Espad, ricerca sui comportamenti d’uso di alcol, tabacco e sostanze psicotrope legali e non, da parte degli studenti e delle studentesse di età compresa fra i 15 e i 19 anni, “dice che in quella fascia d’età almeno il 18-20% ha consumato nell’ultimo anno, circa il 10% ha consumato recentemente, più del 3% consuma in modo problematico”, prosegue Regio. La stima quindi si traduce in almeno 100 mila adolescenti che consumerebbero in modo problematico sostanze illegali. “Altre stime portano a dire che in Italia circa il 10% della popolazione, tra i 15 e i 64 anni, consuma”: quindi 4-5 milioni di persone. “Possiamo ipotizzare di avere 5 milioni di persone problematiche dipendenti da sostanza? Assolutamente no. Anche perché per contro abbiamo circa 570 Serd che nel 2021 hanno preso in carico 124 mila persone”. La stima del Cnca - “non scientifica, né esatta, ma costruita sul campo” - è che non più del 15% arrivi a un consumo problematico, ancora meno a una dipendenza. 

“Nel tempo si è data troppa enfasi alle comunità residenziali, che sono tuttora un servizio indispensabile perché per determinati profili continuano a essere una risposta adeguata. Ma non per tutti”. Nel Lazio, per esempio, sono circa 14 mila le persone prese in carico dai servizi e 350 quelle in comunità. 

Le comunità tradizionali poi, aggiunge da Magliana 80 Germana Cesarano, “sono molto selettive: non amano prendere le persone che hanno anche un problema penale”. Ma i due profili ormai, soprattutto per alcune dipendenze, coincidono. Un po’ per le modifiche di legge degli anni ‘90, un po’ “perché oltre alla tossicodipendenza da sostanza c’è una tossicodipendenza da galera e reati, che a volte è più dura da estirpare. Non è solo recidiva: è una dipendenza di stile di vita”. “Negli anni ‘90 l’errore era vedere l’ingresso in comunità come risposta, anche pompata, della legge sulla droga: un boom di ingressi senza filtro. È stato un fallimento enorme: è come dare a tutti l’antibiotico, mentre alcuni magari hanno bisogno solo di un’aspirina”, aggiunge Cesarano.

 

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La memoria passa anche da un orto

La memoria passa anche da un orto

Tre generazioni di maledizione

“Non vorrei essere scambiato per uno che induce ai consumi - mi ritengo una persona che guarda ai fenomeni per quello che sono”, ragiona Stefano Regio nella sede del Cnca Lazio. “Ma oggi un terzo della popolazione carceraria è dentro per reati di droga. Più di 30 mila persone giovani sono state segnalate perché trovate con sostanze. Ci sono fino a 100 mila processi sospesi pendenti al 31 dicembre scorso”. Il contrasto al traffico è uno dei quattro pilastri che la Comunità Europea ha individuato per la lotta alla droga. “Ma ci sono anche la cura e la riduzione del danno”. E una liberalizzazione di alcune sostanze leggere “aiuterebbe”. Il consumo, dice Regio, “c’è comunque: bisogna piuttosto evitare di aggiungere un problema di devianza. Due problemi non si risolvono meglio di uno”. E a chi dice che poi i giovani e le giovani cominciano più facilmente, Regio risponde: “Non è vero, perché cominciano così facilmente oggi che non vedo cosa potrebbe cambiare. A loro proviamo piuttosto a garantire servizi, stando sui territori con le unità di strada e parlandoci direttamente. È il tabù a creare ignoranza”. 

Lorenzo viene a Magliana 80 da più di 10 anni. Ha cominciato da giovanissimo con l’eroina. “All’epoca c’era solo quella. Ce n’era tanta. Questa era la zona mia. Ho cominciato per gioco. Poi dopo tanti anni mi sono anche macchiato di reati per procurarmi la droga”. Una volta è finito in ospedale per un’infezione. “Ho detto che stavo in terapia metadonica. E mi ricordo ancora - mi si accappona la pelle - questa dottoressa che mi ha detto: ‘Un tossicodipendente? E non si vergogna? Secondo lei dovrei lasciare i pazienti normali e curare lei? Fossi in lei non sarei venuta neanche in ospedale a levare il posto a una persona normale’. È stato raccapricciante”, dice Lorenzo. Sono 10 anni che non tocca più eroina. “Non ce la facevo più. Mi viene l’ansia solo a raccontartelo: la sostanza è una cosa brutta”. O meglio. “La sostanza è bona, sennò non ci cascherebbero tutti”, sorride. “Il problema è che quello che avviene è disumano”. E la lotta dura per sempre. “Esci dalla sostanza ma non ne esci mai. Al contrario di chi non l’ha mai usata, sai che c’è una cosa che per mezza giornata ti fa dimenticare i problemi della vita. Ma sai quello che succederebbe e ora anche che non ne vale la pena”. 

Quella di Magliana 80 è una comunità diurna dagli spazi limitati: 8 persone al giorno, dal lunedì al venerdì. Dal 2012 conta circa 300 utenti presi in carico. La comunità è destinata a persone che hanno una rete familiare e un posto dove dormire, mentre qui si fa terapia e si impara anche a gestire i momenti di ozio, favorevoli al consumo. Gli uomini sono, ancora una volta, la stragrande maggioranza: l’80%. I risultati seguono la media nazionale: il 50% poi ci ricasca. “Alcuni di loro tornano dopo 4-5 anni”, dice Cesarano. “Uno dei difetti di una struttura così radicata sul territorio è che gli abitanti della zona chiedono poco aiuto, perché si sentono stigmatizzati. Vengono qua a prendere le siringhe, ma entrare in comunità significa fare i conti con il loro ambiente”. 

Già, perché a Magliana 80 c’è anche lo sportello per la riduzione del danno. “Vengono qui a prendere le siringhe nuove e riportare quelle utilizzate”, racconta Maria Luisa Salvitti, psicoterapeuta della comunità. “Non vogliono smettere di drogarsi ma nemmeno prendersi malattie o diffonderle. Abbiamo dei tossicodipendenti storici qui nel quartiere Magliana a cui diamo un cartone intero di 100 siringhe. Te lo riportano intero, le siringhe tutte belle incartate, dopo l’uso. Non vogliono disperdere quel materiale nell'ambiente né essere un pericolo per gli altri”. 

Quando i pazienti di Magliana 80 erano giovani “la possibilità di ripensare il proprio futuro - andare a scuola, cercare lavoro, fare una formazione, anche cercare nuovi amici - era più facile”, aggiunge Germana Cesarano. “Con l’innalzamento dell'età le cose si complicano”. Se prima “le famiglie avevano un ruolo importantissimo nella cura, perché potevano diventare coterapeute, adesso i padri sono loro, e dobbiamo lavorare anche su come essere bravi genitori”. E su come, dice la psicologa, scongiurare “le tre generazioni di maledizione”: “Qui abbiamo avuto quello che è venuto a prendere la morfina, il figlio che è venuto a fare la terapia, e che a sua volta è venuto a chiederci aiuto per il proprio figlio che a 22 anni è impazzito col crack. Tre generazioni di persone che chiedono aiuto alla stessa struttura perché poi in realtà non riescono mai a cambiare fino in fondo”. 

Chi dipende da sostanza, avverte Stefano Regio, “non è una persona interdetta che ha perso le facoltà mentali: è una persona che vive una difficoltà e con il buon senso, l’immersione in relazioni sane, con determinazione viene messa di fronte delle regole di vita”. E ancora: “Se una persona decide di continuare a consumare noi la vogliamo aiutare? O fino a che non decide di curarsi la abbandoniamo con grave danno per l'individuo e la collettività? Noi siamo per questa possibilità di prendere in carico tutti e fare emergere il sommerso”. 

 

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La storia di Stefano: "Ho smesso per disgusto"

La storia di Stefano: "Ho smesso per disgusto"

Alcol e consumo precoce

In Italia “alcuni fenomeni - l’immigrazione, il sesso, i consumi di sostanze - sono sorvegliati speciali”, chiosa Stefano Regio. “Nessuno pensa che bere un bicchiere di alcool ti porterà a essere un alcolista, molti pensano che una canna ti porterà a essere un drogato. Non è così”. Oggi come ieri, a consumare si inizia in età precoce. “Ci sono una serie di comportamenti, non solo canna-eroina, canna-siringa, canna-pippotto da crack. C’è una tendenza a usi molto precoci”, avverte Germana Cesarano. L’età della prima sbronza “si è abbassata di 3 anni, avviene a 13 anni. E c'è un uso di canne e altre sostanze quando ancora si è in fase di formazione del carattere e delle relazioni”. 

L’escalation arriva poi dopo, tra i 16 e i 17 anni. Maria Luisa Salvitti, psicoterapeuta della comunità di Magliana 80, ha lavorato con le unità di strada fino al 2019. “Lì si intercetta un target più giovane che non è lo stesso di 20 anni fa. Ci sono giovani che si avvicinano all'eroina e la fumano, ma rimane un contatto marginale. E ci sono altri che puntualmente raccontano che ogni volta che vanno a una festa si fanno un mix di pasticche, ecstasy, alcol, ketamina, cocaina. Questo è il mondo giovanile. Se dovessi stilare una gerarchia, a livello di problematicità e percezione del rischio, sicuramente metterei l'alcol al primo posto”. 

“L’alcol, oggi, è il brodo di coltura della dipendenza - quando non una dipendenza principale. Chi è dipendente da cocaina o cannabis è anche ottimo bevitore”. Vincenzo Aliotta, classe 1943, è l’ideatore e fondatore del Centro Recupero Dipendenze San Nicola, attivo dal 2013 a Piticchio, borgo medievale nelle Marche, in provincia di Ancona. Anche qui il programma terapeutico è breve e intenso ed è basato su un approccio interdisciplinare ispirato al metodo dei 12 Passi degli Alcolisti Anonimi. “Mia moglie era francese e nella sua famiglia il problema dell'abuso alcolico era ben presente”, racconta all’ANSA. La storia del progetto è diventata anche un libro, “Un passo alla volta. La vita oltre le dipendenze” [Giunti, 2023], curato dalla giornalista Barbara Bonomi Romagnoli. 

“La cultura alcolica è connessa col fatto che è una bevanda culturalmente accettata. È una modalità per i giovani per sentirsi più grandi e più in gamba rispetto al gruppo. Nell’adulto è espressione dell’essere rimasti piccoli mentalmente. La base è sempre quella del rapporto di relazione tra il noi e il fuori di noi”. Aliotta dal 1969 vive nelle Marche, partecipa tra il 1990 e il 2000 con il gruppo di Careggi, Firenze, alla stesura dei due volumi del “Libro Italiano di Alcologia”. L’eredità che raccoglie è quella della struttura clinica diretta dal padre e nata nel ‘63 come clinica neuropsichiatrica. “Erano gli anni del cambio di atteggiamento nei confronti della psichiatria”, ricorda. “Il problema dell'alcol nella famiglia di mia moglie mi ha dato la possibilità di avere una migliore conoscenza di come venisse trattato in Francia, dove si guardava alla malattia alcolica a tutto tondo”, mentre in Italia la visione era “piuttosto settoriale: l'alcolista, a parte lo stigma, veniva trattato con approccio gastroenterologico per i problemi al fegato”. Così - cruciale anche la rivoluzione del 1978, con la legge Basaglia - ci è venuta l'idea di passare a clinica delle dipendenze”. 

Tornato a Roma Aliotta si imbatte nella chiesa anglicana tuttora punto di riferimento storico per gli alcolisti anonimi e viene in contatto con l'autoaiuto: un cammino di spiritualità laica, il percorso dei 12 passi. Sono gli anni successivi alla guerra del Vietnam e dell’invasione dell'eroina sui mercati europei. La conoscenza del gruppo di alcolisti  porta Aliotta a capire l’importanza di inserire i gruppi di mutuo aiuto “nei percorsi di recupero basandoli sul metodo dei 12 passi”. L’obiettivo è quello della consapevolezza della malattia e soprattutto del desiderio, dopo il ricovero, di riuscire a tenersi fuori. Negli Stati Uniti entra poi in contatto con una comunità con gruppi in California e ad Atlanta. “Tutti gli operatori della società avevano avuto in passato problemi di alcol: dal primo degli ausiliari al direttore generale. Avvincente. Tornato in Italia, Aliotta decide di creare una struttura analoga. “Nel 2013 siamo riusciti a far partire questa attività innovativa nella gestione della problematica delle dipendenze”. La sfida, insieme all’eroina, è la cocaina. “E poi l’abuso alcolico, il sottofondo dipendenziale”.

Anche l’idea di Aliotta è quella della residenzialità breve: “Storicamente nel nostro Paese, per molti anni e anche con merito in alcuni casi, abbiamo avuto sempre - attraverso l’esperienza di Vincenzo Muccioli e Sanpa - l’idea di una comunità con un percorso almeno biennale per trovare la chiave del successo del trattamento”. Ma il fondatore del centro San Nicola decide di ribaltare il tavolo. 30 posti letto, in 10 anni quasi mille (920) casi trattati: il rapporto uomo-donna è 3 a 1. I pazienti seguono un percorso clinico di 3-4 settimane, poi una residenzialità sostanziale di due mesi e una messa alla prova per altri 10 mesi, con un rapporto mensile di follow up. Anche qui l'età media è cresciuta: all’inizio molto bassa, è ora intorno ai 38-40 anni. “Abbiamo percentuali di successo del 60-65% dei casi: per noi è soddisfacente, il settore è molto difficile". E si continua ad applicare il metodo del 12 passi “arricchendo la qualità del servizio con la presenza dei counselors, cioè di persone con un percorso ormai stabilizzato da anni di sobrietà”. Figure “di grande importanza” perché “solo chi è uscito dalla dipendenza può capire che cosa può provare chi ha questo problema”. Per dare una risposta ad alcol, eroina e oggi al poliabuso e all’ormai assai diffusa doppia diagnosi, “cioè il sovrapporsi di problemi di tipo psichiatrico-psicologico”, l’importante “è non sottrarre la persona da quella che è la dinamica della sua vita: per questo la residenzialità breve è innovativa e fondamentale”. Come fondamentale è, “dopo”, mantenere un contatto: “Per questo stabiliamo un rapporto molto forte con i gruppi di auto-mutuo aiuto del territorio di residenza del paziente che esce. Che così è protetto da questa rete”. 

 

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Il centro recupero dipendenze San Nicola

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