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Ucraina invisibile, disabili e anziani in tempo di guerra

Ucraina invisibile, disabili e anziani in tempo di guerra

Come l’Ue, Intersos e organizzazioni locali si occupano dei più fragili del conflitto


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Nell’Est dell’Ucraina non si soffre solo per i frequenti bombardamenti o i rischi legati alla centrale atomica, ma anche perché in quell’area arriva la maggior parte degli sfollati che fuggono dall’occupazione russa. E in una società già tanto provata dal conflitto, ci sono poi le persone disabili che hanno ancora più difficoltà. Il progetto della direzione generale Echo dell’Ue con Intersos e altre ong si occupa degli ultimi degli ultimi nella guerra

di Cecilia Ferrara


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A oltre 500 giorni dall’inizio della guerra russo-ucraina o, come dicono qui, dall’inizio dell’escalation del febbraio ‘22, ancora non si vede una fine del conflitto. Gli allarmi per i droni e per i missili continuano a risuonare sui cellulari e nelle sirene cittadine e - dopo il mancato accordo sull’esportazione di grano - sempre più spesso arrivano a colpire edifici civili, condomini, pizzerie, ospedali con il loro triste bilancio di morti e feriti. 

 

Le cifre più recenti (29 agosto 2023) registrano 26.717 vittime civili all'interno dell'Ucraina: 9.511 persone uccise e 17.206 ferite dal momento dell'invasione, anche se si ritiene che il numero effettivo sia molto più elevato. Il numero di persone sfollate internamente (idp, internally displaced persons) è ora sceso da un picco di poco più di 8 milioni a 5,1 (fonte Iom maggio), tuttavia la maggioranza (3,9 milioni) proviene ancora dall'Est del Paese dove il conflitto è ancora brutale. Da febbraio 2022 però c’è un’altra forza che è arrivata in Ucraina, quella della solidarietà internazionale organizzata: ong, agenzie governative, delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. 

 

L’Ue ha dato aiuti in questi 16 mesi per 733 milioni di euro attraverso distribuzioni regolari della direzione generale Echo (European civil protection and humanitarian aid operations) a partner di vario tipo: agenzie, ong che a loro volta fanno lavorare organizzazioni di volontariato e ong locali. I paesi membri invece hanno donato direttamente attraverso la protezione civile europea 650 milioni di euro in particolare per generatori e moduli abitativi. 

 

“Siamo sul campo per identificare assieme alle autorità locali quali siano le urgenze primarie sulle aree più colpite, dove è più difficile intervenire ma dove anche il nostro aiuto può avere un impatto maggiore”. Così spiega Andrea Trevisan della direzione generale Echo della Commissione europea. Il ramo umanitario dell’Unione europea si è concentrato inizialmente sull’emergenza. “In un conflitto di così grande ampiezza - continua Trevisan - il bisogno più immediato è stato quello di assicurare assistenza di milioni di persone che sono dovute fuggire da territori che si sono trovati in mezzo alle ostilità o sotto il controllo di altri attori (occupati dalle forze russe, ndr), questo ha occupato la prima parte dell'emergenza”. 

 

Quindi sono stati assicurati i luoghi di protezione per affrontare l’inverno a chi non aveva più una casa, ma dal 2023 molte persone stanno rientrando verso i luoghi di origine e per Echo significa un impegno che va dalla ricostruzione delle case distrutte al supporto per avere servizi sociali e accesso alla sanità. “L’accesso ai servizi sanitari è fondamentali in un Paese con migliaia di feriti a causa delle ostilità - continua il rappresentante di Echo -. Purtroppo il sistema sanitario ha subito numerosi attacchi, registriamo dall'inizio del conflitto svariate decine di missili su ambulatori, ospedali, posti mobili di cura”. 

 

L’ong italiana Intersos ha partecipato alla realizzazione di un progetto di protezione per portare servizi e beni alle persone più fragili, sia sfollate da zone di guerra, sia persone con problematiche precedenti alla guerra, sia sfollate della guerra del 2014. 

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I più fragili tra i fragili

Yulia ha due figlie fortemente disabili, vive in un villaggio sulla riva sinistra del fiume Dnipro, lei si occupa della campagna, di alcune mucche e poco altro, mentre il marito lavora tutto il giorno. Le due figlie hanno 20 e 16 anni ma a causa di questa disabilità ne dimostrano 10 e 6, la più grande sta su un passeggino e ride per ogni cosa che sua madre dice, l’altra è seduta in un seggiolino da auto da bebè appoggiato su una panca e guarda dei video al cellulare, si accorge vagamente della nostra presenza. 

 

“Pensano che sia una forma di epilessia - spiega Yulia - ma dovrei fare delle analisti genetiche specifiche. Stavo raccogliendo i soldi per andare a farle a Kiev in centri avanzati, ma poi è arrivata la guerra e quello a cui ho pensato è stato fare scorta di cibo non reperibile e siamo rimasti senza nulla”. 

 

La famiglia che si trova nel villaggio Kurylivka ha subito un’inondazione, quindi è stata assistita da Intersos con gli "energy kit", caricabatterie e lampade per avere un minimo di luce. Il padre è stato convocato per una visita medica per essere eventualmente mobilitato per la guerra, ma sostenere la famiglia da sola per Yulia è impossibile. Non può mai lasciare le bambine, anche quando si prende cura degli animali e va nel campo a mungere la mucca si porta una per una le due figlie con rispettive carrozzine nel luogo della mungitura. Il marito è l’unico che lavora e per questo la famiglia riceverà un aiuto legale gratuito perché mobilitare il padre significa violare i diritti delle bambine. 

 

Intersos nel contesto di questo progetto sta puntanto l’attenzione sui vulnerabili tra i vulnerabili. "I disabili e gli anziani sono tra le priorità - spiega Martina Mannocchi -, spesso rimangono al di fuori dell’assistenza, hanno più difficoltà ad esercitare i loro diritti per la loro condizione fisica, perché non riescono a spostarsi, per il fatto che più difficilmente hanno accesso a delle fonti di reddito”. Le vulnerabilità di queste persone sono molteplici, non è solo il conflitto che ha colpito la loro vita. “Sono delle persone che non riusciranno a lavorare, che non avranno accesso all’istruzione tradizionale e che non avranno la possibilità di scappare se succede qualcosa. Ad esempio l’esplosione della Centrale nucleare di Zaporizhzhia”. 

 

Dopo l’attacco alla diga di Kakovka, infatti, da una parte le condizioni della centrale nucleare sono precarie per la mancanza d’acqua, dall’altra nessun tipo di attacco è più escluso. “Si percepisce una certa paura - conferma Mannocchi -, soprattutto dopo l’attacco alla diga, perché anche in quel caso nessuno pensava che sarebbe successo. Invece è successo”. 



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Che cos'e' il progetto Echo

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Fuggire da casa

Se oggi secondo l’Internal displacement monitoring center gli sfollati interni sono 5,9 milioni, già con la prima guerra del Donbass e l’annessione della Crimea alla Russia, nel 2014, si erano creati 1,7 milioni sfollati interni o "idps", come vengono chiamati nel gergo internazionale (Internally Displaced Persons). 

 

Si tratta di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie case spesso di fretta, spesso convinte che sarebbero tornate entro poche settimane. Invece molti sfollati del 2014 vivono ancora in condizioni precarie senza riuscire a rifarsi una vita. I più in là con l’età se fuggono spesso finiscono in queste case di riposo per anziani e disabili e da là non escono più. Così succederà probabilmente a Volodomyr e Svitlana Konoplyanov 86 e 83 anni che dal 2014 vivono in una stanza al centro regionale per le persone anziane e con disabilità di Troitske. Lui è allettato e lei poco mobile, Intersos ha aiutato il signor Volodomyr con un trasporto in un centro urologico specializzato per un’operazione. 

 

Sono fuggiti dalla città di Pavlhorad a Luhansk nel febbraio del 2014, quando la città è stata occupata dai filorussi. “Non potevamo stare sotto i russi”, racconta la figlia Vlada, di 58 anni, anche lei sfollata a Dnipro. 

 

Tutta la famiglia prima del 2014 lavorava nelle miniere di Luhansk: il padre era un ingegnere capo del dipartimento tecnico, la moglie e la figlia lavoravano come unità operative dell’azienda. Vlada adesso ha una figlia che vive a Luhansk, la loro zona è stata recentemente occupata e adesso non riescono ad uscire. 

 

“Se siamo stanchi della guerra? - conclude Vlada -. Certo, ma non significa che dobbiamo stare seduti e accettare quello che c’è ora. Dobbiamo completare la guerra il prima possibile, ma se non ce la faremo ora, questo vuol dire che i nostri figli combatteranno contro i russi”.

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Ecco perche' siamo fuggite dal Donbass nel 2014

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Kharkiv, sfollato nella propria città

Kostya è un ragazzo di 28 anni, cresciuto in un orfanotrofio a Kharkiv, quando è iniziata la guerra stava lavorando per il magazzino di uno dei principali mercati della città. 

 

Kharkiv è stata una di quelle attaccate più duramente all’inizio della guerra, una città russofona imbevuta di cultura russa, tanto che Putin pensava avrebbe aperto le braccia ai soldati di Mosca: invece per ben tre mesi i cittadini di Kharkiv hanno resistito all’invasione, vivendo nella metropolitana per sfuggire ai bombardamenti più duri. Dopo di che sono tornati in superficie ed hanno ripreso quella strana vita "regolare" di chi è a 30 km dal fronte e a 40 secondi dal prossimo missile. 


Anche Kostya è stato sorpreso dalla guerra. “Ero in casa con il mio coinquilino quando alle 5.30 di mattina abbiamo sentito esplosioni e combattimenti - racconta -, non c’erano informazioni su quello che stava succedendo”. Entrambi sono andati al mercato ma non c’era nessuno quindi hanno seguito gli altri nella metro. I primi giorni stavano mezza giornata nelle gallerie della metro e mezza giornata in appartamento. Dopo 5 giorni hanno preso i vestiti e si sono stabiliti sotto terra. A maggio come tutti hanno iniziato a riapparire in superficie e Kostya si è accorto che qualcuno gli aveva rubato tutti i documenti.

 

Non avendo familiari è molto più difficile per lui dimostrare la sua identità e da allora la sua vita è diventata un incubo, nessun contratto di affitto, nessun lavoro. Da un anno vive in un centro collettivo e ora con Intersos sta cercando di trovare una via legale per ottenere il passaporto. Nel frattempo è sfollato nella sua città. 

 

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"Ora non posso lavorare ne' ricevere aiuti"

"Ora non posso lavorare ne' ricevere aiuti"

Le signore di Zaporizhzhia, scappate dalle città occupate, aspettano la fine della guerra

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Zaporizhzhia, conosciuta come la città della centrale nucleare, è la sesta città ucraina per popolazione, città tradizionalmente industriale. Si attraversa un ponte sopra una diga sul fiume Dnepr per andare in centro. Il Dnepr fa una strettoia in quel punto e poi si allarga nel bacino dove c'è la centrale nucleare più grande d’Europa a Energodar, attualmente sotto occupazione russa. Oggi è una città che si sta riempiendo di profughi, dove trovare un appartamento è diventato impossibile e costoso. Dell’oblast solo la parte nord compresa la città è rimasta in mano governativa, anche se proprio su questo fronte si stanno concentrando le forze della controffensiva e da questa regione arriva qualche annuncio di avanzata da parte di Kiev. 

 

Il progetto di Intersos/Echo in  questa regione è gestito dall'ong locale Vostok Sso (Est Sos), nata nel 2014 in supporto della rivoluzione di Majdan. Per Echo supportano sfollati interni in due centri collettivi aiutando soprattutto con i cosiddetti "energy kit", i sopporti per avere l’elettricità nei momenti in cui viene staccata, ad esempio durante i bombardamenti. 

 

Nei centri si trovano soprattutto donne sole o donne molto anziane che magari hanno la famiglia sfollata in città, ma il posto in casa non c’è. Così è successo a Taisiya, 83 anni, due occhi vispi che sorridono, di Huljajpole, città che sta proprio sul fronte. Taisiya è stata evacuata assieme alla figlia e due mesi dopo è riuscito a scappare anche il marito della figlia. “C’erano talmente tante esplosioni che ho perso l’udito - racconta -, siamo scappate con i vestiti che avevamo addosso”. 

 

Inizialmente erano in un rifugio temporaneo e li hanno spinti a cercare un altro posto, proprio a causa degli affitti molto alti moglie e marito hanno trovato un appartamento, ma posto per Taisiya non c’era e per l'anziana hanno trovato posto in un centro collettivo. Ma lei non si lamenta: “Alla fine è meglio così - sorride -, passo il tempo con persone della mia età, abbiamo più cose di cui parlare”. Taisiya abbraccia tutte noi, giornaliste e operatrici di Intersos con un calore che rende difficile non commuoversi. “E poi - conclude quasi maliziosa - c’è sempre qualche giovane che mi aiuta a scendere e che mi va a comprare il gelato“.

 

Irina Viktorina è più giovane, una signora bionda di 50 anni e viveva a Berdjansk sul mar d’Azov. “E’ una città turistica - spiega -, prima del 2014 venivano sempre i russi in vacanza e non c’era mai stato nessun problema”. Lei si prendeva cura della madre anziana e stava creando un’associazione per disabili: “I russi sono arrivati il terzo giorno dall’inizio della guerra, sono entrati senza combattere perché il sindaco aveva deciso di non fare resistenza per evitare morti e feriti. Era tutto aperto, anche gli edifici delle istituzioni, sempre per evitare spargimento di sangue. Poi sono arrivati i veicoli militari, i soldati che andavano di casa in casa a prendere i maschi giovani per farli lavorare con loro, chi si rifiutava finiva male”. 

 

Quando è iniziata l'occupazione la madre era ricoverata per una crisi glicemica. Con i russi diventa difficile procurarsi le medicine anche per gli ospedali, non si possono ritirare soldi dai bancomat, lei pensa che deve andare a cercare le medicine per la madre. Riesce fortunosamente a scappare dalla città, cammina due giorni ed arriva alla prima città sicura controllata dal governo ucraino. “Sono arrivata a Polohy, lì in una chiesa avevano allestito una prima assistenza con acqua calda e coperte - racconta -, da lì ho preso un bus per arrivare a Zaporizhzhia”. Non riuscirà mai a mandare le medicine, sua madre nel frattempo è morta e lei si ritrova sfollata in un centro collettivo ed è anche grata perché non è facile ormai trovare un posto dove stare senza pagare.

 

Irina, 62 anni, ha un caschetto bruno e un piglio teatrale.  E’ sfollata dal 2014, dalla prima ondata della guerra in Donbass. Lei è di Mlklivka vicino a Donetsk dove lavorava in un teatro per l’appunto, nella programmazione. “Prima che arrivassero i russi c’era una buona qualità di vita. Si lavorava, si viaggiava - ricorda -, poi sono iniziate ad arrivare tutta una serie di informazioni strane. Dicevano che non ci sarebbe stata una guerra ma un altro regime, che sotto i russi la vita sarebbe migliorata. Eppure non mi sembrava che la nostra vita fosse tanto male”. Irina è lì quando c’è il referendum che ha portato alla creazione delle repubbliche indipendenti del Donbass Dnr, lei era totalmente contraria e non è andata a votare. Dopo la vittoria degli indipendentisti la vita è diventata impossibile, c’erano check-point che controllavano se avevi fatto il passaporto della nuova repubblica e anche i vicini le facevano capire che una supporter di Kiev non era gradita. Come molti sfollati del Donbass, prima del febbraio 2022 riusciva a tornare ogni tanto a casa a vedere come stavano le cose, adesso è impossibile. “Non so che succederà, faccio parte di una comunità religiosa dove ci sono altre persone di Malinka e alcuni di loro stanno cercando di comprare casa qui, io non so ancora cosa farò”.

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