Una leggenda del pugilato che ha regalato brividi ad almeno due generazioni. George Foreman è morto all'età di 76 anni a Houston, Texas, lui che era nato nel sobborgo povero di Marshall ed era cresciuto nel ghetto di Fifth Ward. Aveva fatto 40 volte dentro e fuori dal riformatorio. Era diventato campione del mondo per la prima volta nel 1973 battendo Joe Frazier, dopo essere stato campione olimpico nel 1968 in Messico.
Nessuno che ami lo sport e in particolare il pugilato potrà dimenticare 'Rumble in the Jungle', l'incontro per il Mondiale dei massimi, del 1974 a Kinshasa tra Foreman e Muhammad Ali, probabilmente il più famoso match della storia della boxe: 'Big George' ne uscì sconfitto, rendendo così immortale Ali, poi ebbe una crisi mistica che quasi lo spinse a lasciare il pugilato (lo fece, una prima volta, tre anni dopo).
In seguito si mise a fare il pastore evangelico, riconquistò il titolo nel 1994, a 45 anni: mai nessuno così vecchio era ed è più riuscito a salire sul trono della categoria più importante e affascinante, prima di ritirarsi definitivamente nel 1997 all'età di 48 anni. Nel frattempo divenne anche grande amico di Ali', con il quale, rivelò in seguito, aveva lunghe conversazioni telefoniche. In mezzo a pugni dati e presi aveva infilato un'avventura imprenditoriale con un'azienda che produceva griglie elettriche per hamburger.
'Big George' raccontava che la mamma non voleva che salisse sul ring, ma lui fece di testa sua. Fino a diventare campione, uno dei re quando eravamo re, l'altro, il cattivo. Andò al tappeto nel Rumble in the Jungle, il super-incontro trionfo della 'negritudine' che il dittatore megalomane dello Zaire, Mobutu Sese, volle ospitare garantendo ai due contendenti una borsa, stratosferica per quell'epoca, di cinque milioni di dollari a testa. Lui era il 'cattivo', fu odiatissimo e trattato da bianco. Colpa anche di Dago, il pastore tedesco dal quale non si separava mai. Lo portò nella conferenza di presentazione alla stampa internazionale a Parigi. Poi lo portò anche a Kinshasa, e fu il suo grande errore. In quel pastore tedesco i congolesi videro il simbolo della dominazione feroce dei belgi, che usavano lanciare branchi di cani contro la gente del popolo che si opponeva. E tutti si scatenarono al celebre grido di 'Ali bomaye', Ali uccidilo.
In una intervista al Telegraph in occasione dei 50 anni da quell'incontro epico (sul quale stati scritti libri e fatti dei film, uno dei quali, "Quando Eravamo Re", ha vinto l'Oscar come miglior pellicola-documentario) contro Alì Foreman raccontò di essere uscito 'devastato' da quella sconfitta. "Credevo che nessuno fosse in grado di battermi. Mi sentivo invincibile.
Pensavo di mettere ko Muhammad Ali in due round. Perdere quel combattimento mi ha davvero devastato. Non riuscivo a capire perché le mie tattiche non funzionassero e non lo avessi messo ko. Pensavo che Ali avrebbe fatto due round e non di più. Quando ho alzato lo sguardo ed eravamo al quarto round...mi sono chiesto cosa stesse succedendo…". Da quella sfida nacque un'amicizia, quella con Ali: "Amavo stare con lui, mi faceva davvero sentire bene".
C'è una foto, una sola, che Foreman ha conservato di tutta la sua carriera. La foto di Muhammad Ali che lo mette a terra. "E' l'unica foto che ho salvato, quella di Muhammad Ali che mi butta a terra - svelò Foreman sempre al Telegraph - perché mi sono reso conto di quale grande momento fosse per lo sport e per la boxe. E mi ha umiliato. Non l'ho mai dimenticato, e mi ha reso una persona molto migliore di fossi stato se avessi buttato io giù lui". L'ultimo gong è risuonato a Houston, la famiglia ha annunciato la morte di big George: "Devoto predicatore, devoto marito, padre amorevole, orgoglioso nonno e bisnonno, ha condotto una vita segnata da fede granitica, umiltà e determinazione - Se n'è andato serenamente circondato dai suoi cari". Un'altra leggenda, un pezzo di storia che non c'è più.
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