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Hannah Arendt e 'la banalità dell'amore' con Heidegger

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Hannah Arendt e 'la banalità dell'amore' con Heidegger

Tra sentimenti e storia in Germania prima e dopo la guerra

ROMA, 15 maggio 2025, 16:12

Redazione ANSA

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- RIPRODUZIONE RISERVATA

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(di Paolo Petroni) 'La banalità del male', il celebre discusso saggio di Hannah Arendt nato dal processo Eichmann, non è quella relativa ai crimini nella Shoah dell'imputato ma quella della normalità e passività sua e dei tanti tedeschi che vi presero parte; 'La banalità dell'amore', titolo dell'avvincente testo di Savyon Liebrecht, che torna in scena con la regia di Piero Maccarinelli al Teatro India sino al 18 maggio, è quella della passività e irrazionalità di questo sentimento specie in un rapporto non simmetrico, non paritario.
    In questo caso si tratta di quello, nella Germania che vive la crisi di Weimar e l'ascesa del nazionalsocialismo, tra il trentacinquenne professor Martin Heidegger e appunto Hannah Arendt, sua alunna ebrea diciottenne, che scopriremo sentirsi un giorno praticamente plagiata e di aver vissuto con tutta se stessa quell'amore che le creò sofferenza e solitudine per l'affascinante autore de 'L'essere e il nulla', che aprì la strada alla filosofia moderna non vedendo più il filosofo come un soggetto che osserva la realtà, ma - semplificando - come un soggetto coinvolto nell'oggetto.
    Hannah è la protagonista del lavoro costruito con intelligenza e messo in scena con la sapienza della regia nello sfruttare il lato spettacolare dei due piani temporali e logistici in cui tutto si svolge. Abbiamo, da una parte della scena, Arendt anziana in America che accetta di essere intervistata da un giovane studente dell'Università di Gerusalemme, anche per chiarire la sua posizione e il senso dei suoi scritti travisati e attaccati con durezza a suo tempo, specie in Israele. E dall'altra lei giovane in Germania e il suo incontro e gli anni di grande amore col professore, sposato e con due figli, che la ringrazia per aver accettato di restare in disparte e per la felicità che gli dona, dicendole: "Non potrei immaginare la mia vita senza di te, senza parlarti, senza vederti, senza toccarti. Tu sei parte di me".
    In fondo alla scena, di Carlo De Marino, due porte diverse, poste dalla regia, a creare un bell'intreccio, inversamente alle due situazioni temporali, servono alle entrate di Heidegger e dell'amico e compagno di studi Raphael Mendelsohn, proprietario della casa in cui i due si incontrano, innamorato di lei e sempre respinto. Due porte che si aprono sul passato e sul presente di Arendt che, col passare del tempo, si sente sempre più divisa tra il non rinnegare quello che comunque fu il più grande, vero amore della sua vita, e assieme condannare inesorabilmente l'uomo che aderisce al nazismo per diventare rettore dell'Università, credendo in un Hitler che avrebbe riportato agli antichi fasti lo spirito e la cultura tedeschi, escludendo dall'università persino il suo maestro Husserl, accettando passivamente le feroci regole antiebraiche, che faranno poi finire Anna in prigione e, subito dopo, a emigrare nel Stati Uniti.
    Lo spettacolo presenta con il giusto ritmo gli incontri d'amore tra lei e il professore e poi l'ultimo, nel 1974, quando Arendt torna in visita in Germania e si rifiuta soffrendo di testimoniare a favore dell'uomo davanti alla Commissione per la denazificazione, alternandoli con sapienza scenica, con quelli tra lei e il giovane venuto a intervistarla, che sarà il protagonista di un colpo di scena quasi giallo, che condurrà alle intense considerazioni finali, esaltando la dimensione più umana e struggente e dolorosa di una sorta di resa dei conti di una vita, inevitabilmente sempre impigliata nel suo passato.
    Una umanità coinvolgente per le sfumature, l'agitazione e il temperamento che le dà la brava Anita Bartolucci e la luminosità e trepida inquietudine di lei giovane proposta dall'ottima Mersila Sokoli, ben definite anche dai costumi di Zaira de Vincentiis, cui si intrecciano la sapienza, il sentimento e l'ingenua, esaltata ambiguità dell'Heidegger di un credibilissimo Claudio Di Palma e la doppia parte cui dona verità Giulio Pranno.
   

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