Per poter intendere il valore della rivoluzione in corso nella ginnastica in Francia, ma che indirettamente riguarda le donne anche in altri sport, è necessario partire da un presupposto: fino a ieri per partecipare alle gare di ginnastica le atlete transalpine erano obbligate di fatto ad indossare un body aderente, pena ben 0,3 punti di penalizzazione. E, in uno sport dove la differenza tra la vittoria e la sconfitta la fanno i centesimi, 0,3 punti significa perdere quasi certamente.
Adesso questa assurda regola non c'è più. Le ginnaste possono indossare anche dei semplici pantaloncini. Pochi centimetri di stoffa che sono una rivoluzione.
Il regolamento federale francese imponeva per le gare di ginnastica ritmica, acrobatica e artistica il cosiddetto "justaucorps", ovvero un abito aderente. In caso contrario la penalità.
Di fatto nessuna ginnasta ha quindi mai indossato i pantaloncini in gara. Il nuovo regolamento anti-sessista consente di indossare shorts sopra il body, a condizione che non superino i dieci centimetri di lunghezza dal cavallo.
Una battaglia vinta dalle atlete che ha qualche precedente illustre e parecchie analogie in altri sport. Nel 2021, ai Campionati europei e alle Olimpiadi di Tokyo, le ginnaste della Germania si sono fatte paladine della "tenuta accademica" ovvero della tuta integrale che copre fino alle caviglie perché "in body ci sentiamo nude di fronte a spettatori e fotografi". Da allora la Federazione Svizzera di ginnastica ha indicato ai fotografi nuove regole per evitare foto sessiste.
Ma la disputa su divise e abbigliamento si è combattuta soprattutto nel beach volley. Nel 2012 le atlete di numerosi paesi musulmani si sono rifiute di gareggiare alle Olimpiadi di Londra con i mini-costumi imposti dalla federazione mondiale: vinsero la propria battaglia e il regolamento fu cambiato. Le vecchie regole sui costumi degli anni '90 avevano aumentato la percentuale di pelle "esposta" ed imposto divise più aderenti in modo da far crescere la popolarità dello sport tra gli uomini.
Nel 2023, sulla scorta della storica modifica del 2012, si è innestata la protesta di Emilie Olimstad e Sunniva Helland-Hansen: le due atlete norvegesi imposero il loro diritto di non gareggiare in bikini e si presentarono sul campo in shorts e top "perché ci sentiamo a nostro agio e per ridurre la pressione della scelta dell'abbigliamento sulle atlete più giovani".
Rivendicazione anti-sessista, ma in senso inverso, quella delle tedesche Karla Borger e Julia Sude che nel 2021 sono riuscite a far modificare il "dress code" del torneo del World Tour in Qatar. Il regolamento imponeva magliette al posto delle canotte e pantaloni fino al ginocchio. Le due tedesche si sono rifiutate di gareggiare fino a quando gli organizzatori hanno eliminato le limitazioni all'abbigliamento delle atlete in gara.
La squadra norvegese femminile di pallamano agli Europei del 2021 ha protestato contro "l'obbligo sessista" di usare pantaloncini-slip di 10 centimetri ed hanno usato i pantaloni dei colleghi maschi. Multate di 1500 euro hanno dato il via ad una protesta che ha coinvolto altre sette federazioni europee.
Lo scorso anno ai Giochi di Parigi ha fatto scalpore il divieto imposto alle sportive francesi di indossare l'hijab, ovvero il velo che raccoglie i capelli: sia frutto di una libera scelta o di una imposizione, le donne musulmane spesso lo indossano in osservanza ai propri precetti religiosi. Numerose sono state poi le rivendicazioni condotte dalle iraniane. Nella loro patria è totalmente vietato mostrare i capelli e buona parte del corpo così non indossare il velo e mostrare parte del corpo è divenuto simbolo di protesta politica. Battaglie tutte che si giocano sulla pelle delle donne.
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