"Dall'84 all'89 ero latitante, ero
a casa mia, ma nessuno mi ha mai cercato". Lo ha detto Francesco
Paolo Anzelmo, collaboratore di giustizia dal 1996, sentito come
testimone stamani al processo per la strage del treno rapido 904
del 23 dicembre 1984, che causò la morte di 17 persone e il
ferimento di altre 267. "Si camminava tranquilli per strada, non
come dopo le stragi di Falcone e Borsellino", ha detto Anzelmo
ricordando la fine della guerra tra le cosche e il periodo
compreso tra gli anni '80 e '90.
Prima di lui alle domande del pm Angela Pietroiusti, nel
processo che vede come unico imputato Totò Riina, collegato in
video conferenza dal carcere di Parma, aveva testimoniato un
altro collaboratore, Calogero Ganci. Entrambi non hanno saputo
rispondere al pm quando ha chiesto loro se erano a conoscenza
che l'autore della strage fu Pippo Calò, già condannato
all'ergastolo negli anni '90. Anzi, Anzelmo ha riferito che nel
corso di un colloquio con Calò, avvenuto nel carcere di Spoleto,
dove entrambi erano detenuti con il regime del 41bis, il boss di
Cosa nostra, "che non si lamentava mai degli altri ergastoli, si
lamentò invece di quello per la strage del treno, perché diceva
di essere innocente". "Io a lui non chiesi nulla - ha concluso
Anzelmo -, se è vero o non è vero a me non interessava". Secondo
Ganci, che però ha spiegato di non partecipare direttamente alle
riunioni della "commissione di Cosa nostra" se la strage fosse
stata decisa dai boss "la decisione non poteva che essere presa
all'interno della commissione. Se Calò decise, ma io non lo so
vuol dire che aveva coperture". "Io però di questa strage - ha
concluso Ganci - all'interno di Cosa nostra non ho mai sentito
parlare".
La prossima udienza è fissata per martedì 27 febbraio:
saranno sentiti altri collaboratori di giustizia.
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