"Felice mai, felice no", questo è
lo stato d'animo di Medea. Oggi che la "sindrome di alienazione
genitoriale" è diventata tristemente presente nel nostro mondo,
Medea si ripresenta con orribile puntualità. Furono gli allievi
di Freud a chiamarla Sindrome di Medea per razionalizzare ciò
che non può essere razionalizzato: l'omicidio dei figli, per
spezzare il legame che i figli hanno con il padre. E Federico
Tiezzi, regista della Medea di Euripide, in scena al Teatro
Greco di Siracusa dal 12 maggio, lo tiene ben presente.
In questa terribile storia, tradotta con maestria da Massimo
Fusillo, in un teatro stracolmo, l'applauso più deciso viene
tributato a Laura Marinoni, Medea straordinaria, intensa,
lucida, regale nel suo manto ricoperto di piume, del tutto
concentrata sulla vendetta che si abbatterà sulla rivale Glauce,
su Creonte, re di Corinto e sui figli, condannati a morte, fin
da quando decide di inviarli a Glauce con i doni avvelenati.
Dunque sarebbero morti comunque. Laura Marinoni esprime alla
perfezione l'angoscia per la perdita di tutto che coglie Medea
quando Creonte la vuole fuori da Corinto, esiliata con i figli,
e subito. Ma oltre Corinto per lei c'è l'abisso. Ha perso la
patria, la Colchide, dove non può tornare, ha tradito la
famiglia d'origine, e ora dovrà vivere senza una casa che la
ospiti, senza denaro e senza marito. Non è solo una tragedia
della gelosia, c'è in gioco la sopravvivenza di Medea e dei suoi
figli, c'è lo spettro della povertà che si profila
all'orizzonte.
La regia di Tiezzi mette a fuoco tutto quanto abbiamo detto
nella scena anni '30 in bianco e nero, una villa neoclassica,
con molti marmi, disegnata con eleganza da Marco Rossi, e Tiezzi
sceglie i primi anni del '900 per narrare l'orrore vissuto da
questa donna barbara, straniera, strega, di una stirpe divina e
vincente.
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