(di Roberto Nardi)
Le mani dietro la schiena di un
uomo che stringono un sigaro, quelle di una donna che tengono
tra le dita inguantate un borsellino in pelle; le mani
intrecciate di una coppia, quelle impegnate forse a rigirare un
piccolo oggetto.
Mani di persone senza identità, senza volto, spesso "senza
luogo, senza data", alcune forse benestanti tante sicuramente
indigenti, ai margini del sogno americano, colte dall'obbiettivo
di Vivian Dorothy Maier (1926-2009), che per tutta la vita ha
lavorato come tata accudendo bambini di varie famiglie ma che
attraverso migliaia di immagini figlie della sua passione
segreta per la fotografia saputo dare visibilità all'invisibile
quotidianità degli altri.
Vivian Maier di fatto nel corso della sua vita non ha mai
sentire la necessità di uscire dalla sua invisibilità di
fotografa e la sua notorietà come icona della fotografia è
arrivata quasi per caso nel 2007 dopo l'acquisto da parte di
John Maloof, all'epoca agente immobiliare, di un garage di
proprietà di una famiglia dove lei aveva lavorato dove erano
custodite centinaia di scatole contenenti foto, negativi,
rullini.
A lei, alla sua storia umana e artistica che pare tratta da un
romanzo, Padova dedica ''Vivian Maier. The Exibition'' una
mostra che presenta oltre 200 fotografie, documenti inediti,
oggetti personali, registrazioni audio e filmati Super 8, curata
da Anne Morin, prodotta da Arthemisia e promossa dal Comune,
negli spazi del Centro Culturale Altinate-San Gaetano, fino al
28 settembre prossimo (catalogo Moebius in collaborazione con
Rmn, Gran Palais e Musée du Luxembourg Paris).
L'esposizione, ha indicato la curatrice, "vuole concentrarsi
sull'opera dell'artista piuttosto che sul suo mistero, evitando
di cavalcare la curiosità sulla sua particolare vicenda umana e
professionale", contribuendo invece a elevare la storia "di una
donna che ha fatto della fotografia la sua ragione di vita,
senza mai esporsi, ma nascondendosi dietro l'obbiettivo, con il
quale catturava immagini indimenticabili, spaccati di vita
quotidiana".
Le mani, come le persone riprese di spalle oppure colte in
attimi di vita quotidiana, sono quasi al centro di un percorso
espositivo suddiviso in sezioni - dai famosi autoritratti mai
diretti, all'avvicinarsi della fotografa all'arte
cinematografica, al passaggio dal bianco e nero al colore, con
le immagini scattate nei quartieri operai, alle foto dei
bambini, di cui sapeva cogliere l'essenza, alla luce anche della
sua attività ufficiale di tata, alla resa astratta degli oggetti
- ma che in realtà offre a tutto tondo la sostanza di un'artista
che grazie alla fotografia ha trovato uno spazio di libertà, una
ragione d'essere.
Per il sindaco Sergio Giordani e l'assessore alla cultura Andrea
Colasio, "Vivian Maier ha raccontato la vita quotidiana che
scorreva intorno a lei, con una capacità di donare dignità anche
ai soggetti più emarginati, quasi sentisse una sorta di sintonia
con i poveri, con il loro mondo, forse una delle ragioni che
l'ha portata a non cercare mai la notorietà e la fama".
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