Kafka a Teheran di Ali Asgari e Alireza Khatami, in sala con Academy Two dopo gli applausi a Un Certain Regard all'ultimo festival di Cannes, è un titolo che contiene due termini a 'stridere', apparentemente inconciliabili, eppure rende bene il paradosso, divenuto status quo, di un paese senza libertà dove il cuore del potere è affidato al religioso Ayatollah Ali Khamenei (guida suprema in carica dal 4 giugno 1989). Da qui tutta una serie di quadri viventi in cui sempre un solo protagonista applica una timida resistenza verso un interlocutore, quadro del regime e che non si vede mai, il quale per diversi motivi lo tratta male, lo vessa senza pietà.
C'è Farbod (Hossein Soleymani), trentenne che deve ritirare la patente e viene sottoposto a un vero e proprio interrogatorio dal funzionario di turno che, si capisce, ha il potere di negargliela a suo piacimento e senza alcun vero motivo. C'è poi chi, come la bella Faezeh (Faezeh Rad), a un colloquio di lavoro deve sopportare le pesanti avances del suo interlocutore piene di singolare prepotenza. Da tutti questi tableaux vivants emerge chiaramente una cosa comune a tutti i regimi dittatoriali, ovvero che anche gli ultimi funzionari si sentono ammantati di un potere assoluto di cui sono solo un riverbero. "In Kafka a Teheran - spiegano i registi - esploriamo le dinamiche del potere nella società iraniana contemporanea, attingendo alle idee di Foucault sulla biopolitica e sul biopotere. Analizziamo il modo in cui i regimi totalitari controllano gli aspetti personali delle vite degli individui, come ad esempio i corpi, la sessualità e l'identità. Questa regolamentazione pervasiva - continuano i registi - si insinua nella vite degli individui, sradicando gli spazi personali dove potrebbe nascere la resistenza. Sottolineiamo la manipolazione delle vite dei cittadini da parte dello stato, sollecitando lo spettatore a rendersi conto del prezzo che questo controllo ha sull'autonomia delle persone".
E ancora Ali Asgari e Alireza Khatami: "Mettiamo a nudo i tentativi dei cittadini di ritagliarsi dei piccoli spazi privati di ribellione, a dispetto di un regime oppressivo. Kafka a Teheran ci consegna una cronaca sulla libertà individuale e sulla necessità di una sfera privata che incoraggi la resistenza. Esaminando queste tematiche, stimoliamo lo spettatore a riconoscere il potere nelle loro vite e li ispiriamo a conservare l'individualità e l'autonomia nonostante il controllo oppressivo dello stato". Kafka a Teheran è stato girato in sette giorni: "Abbiamo guardato le nostre famiglie - concludono i registi - e ci siamo resi conto che il momento di raccontare storie attorno al fuoco era finito. Era giunto il momento di raccontare una storia 'all'interno' del fuoco".
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